Lost secondo Sherazade: Sayid rivela il suo passato.

Sherazade da anni sta scrivendo una sceneggiatura basata su Lost ma con delle modifiche. A voi una scena in cui Sayid rivela il suo passato al suo personaggio.


Ci sedemmo all'ombra di un albero, in un bel posto da cui si poteva vedere la spiaggia e l'oceano azzurro.
Gli feci una domanda:
- Non mi hai ancora detto cosa ci facevi sull'aereo: eri un bel po' lontano da casa, no?
- Già! - rispose Sayid - Ma per dirtelo dovrei raccontarti la storia della mia vita.
- Guarderò la mia agenda, ma non mi sembra di avere altri impegni per oggi - scherzai.
Sayid sorrise, ma non cominciò a parlare. Teneva la testa bassa verso le sue ginocchia, rannicchiate sul petto. Io avvicinai a lui e chinai il mio volto sotto il suo. Lui mi guardò e rise.
- Allora? - chiesi.
- E' una storia troppo triste - si scusò.
- A volte parlarne fa bene - lo incalzai.
- A volte sì, ma in questo caso... non lo so.
Io restavo lì in attesa, silenziosa. Volevo che lui si confidasse con me: questo poteva di sicuro aiutarlo. Alla fine Sayid chiuse gli occhi un istante, li riaprì ed iniziò a parlare:
- Durante la guerra del Golfo, gli Americani mi catturarono e, siccome ero l'unico che parlava inglese, mi costrinsero ad interrogare il mio superiore: volevano sapere che fine avesse fatto un soldato americano precipitato con un elicottero. Ma lui non voleva parlare. Mi mostrarono, allora, un video che avevano girato in un villaggio, dove vivevano dei miei parenti. Il mio comandante aveva ordinato che venisse bombardato con il gas nervino e... ho visto quella gente morire...
Sayid era affranto e rimase senza parlare per un momento, poi ricominciò:
- Decisi allora di continuare a collaborare e loro mi ordinarono di riprendere l'interrogatorio, questa volta con mezzi più... convincenti...
- E cioè? - chiesi, sperando che non fosse ciò che pensavo.
- Tu che dici?
- Torturandolo? - domandai, in apprensione.
Sayid fece un lieve cenno di sì con la testa e abbassò il capo. Per un istante, un silenzio glaciale scese su di noi.
- Oh mio Dio! - esclamai, portandomi la mano alla bocca.
- Promisi a me stesso che non lo avrei fatto mai più. Ma, tornato nel mio esercito, continuai ad interrogare prigionieri per sei lunghi anni. Vorrei cancellare tutto ciò che ho fatto, ma non posso!
Io non sapevo più cosa dire.
- Tu ora mi disprezzerai... e fai bene - disse Sayid, con un filo di voce.
Io ero rimasta allibita. Mi accorsi, però, di non riuscire a provare per lui altro che compassione.
- No, no! Io non ti disprezzo. - finalmente parlai - Certo, sono scioccata da ciò che mi hai detto: non me lo aspettavo di sicuro! Eppoi io conosco un Sayid, sì, forte, determinato, ma anche un Sayid dolce e gentile, capace di prendersi cura di una donna ferita e spaventata, senza che nessuno gli abbia chiesto niente.
Tacqui per un attimo, poi ripresi:
- Tu non volevi commettere quei crimini, vero? - chiesi speranzosa.
Sayid cominciò a scrollare il capo e, con voce rotta dall'emozione, disse, senza mai sollevare lo sguardo verso di me:
- Avevo solo 23 anni e mi hanno trasformato in un mostro!
Mi guardò, finalmente, ed io vidi così tanto dolore nei suoi occhi che gli dissi, con un groppo alla gola:
- Piangi, se vuoi: a volte per un uomo è più coraggioso piangere che non farlo!
Lui sussurrò:
- Io... io...
Sayid incrociò le braccia sulle sue ginocchia e vi appoggiò la testa. Io gli accarezzai dolcemente i lunghi capelli, legati con un nastro di stoffa nera. Sentii che singhiozzava.
Pensai a ciò che facevo io a quell'età: mi divertivo in discoteca con i miei amici! I brividi mi corsero lungo la schiena: vederlo piangere, per me, era proprio straziante.
- Sì, piangi, piangi. Ti farà sentire meglio - gli dissi, comunque.
Poi, all'improvviso Sayid sollevò la testa e mi guardò: le lacrime rigavano il suo volto e i suoi occhi erano ridotti ad una piccola fessura, che supplicava solo aiuto. Si alzò di scatto e se ne andò più in là, tra gli alberi. Io gli corsi dietro.
- Cosa c'è? - gli chiesi.
- Mi dispiace. Hai scelto la Mamma Anatra* sbagliata - mi rispose.
- Non potevo fare scelta migliore! - lo confortai - Eppoi tu sei riuscito ad andartene da quell'orrore, sei scappato dall'Iraq, vero? Eri sul nostro aereo!
Sayid riprese il suo racconto: le storie dolorose non erano ancora finite.
- Un giorno mi portarono una prigioniera da interrogare. Scoprii, così, che si trattava di una mia amica d'infanzia: Nadia. Volevano sapere se era implicata in alcuni attentati terroristici. L'avevano già torturata... le avevano gettato dell'alcido sul petto... le avevano scorticato le piante dei piedi... le avevano forato le mani con il trapano...
Così dicendo, levò i palmi delle sue mani all'insù, come se avesse subìto lui stesso quell'orribile trattamento.
- Basta, ti prego - lo esortai ad interrompere il suo racconto terrificante - E' troppo per me!
- Anche per me! - mi disse, commosso ed afflitto al ricordo di ciò a cui era stata sottoposta.
- Risparmiami i particolari, per favore! - lo implorai.
Guardai il suo volto addolorato: quanto avrei voluto fare qualcosa per lui!
- Nadia mi ricordò che da bambini mi spingeva sempre nel fango... - continuò il racconto, abbozzando un sorriso - ma mi disse che lo faceva solo perchè continuavo ad ignorarla.
- Ti voleva bene! - dissi, aprendomi ad un sorriso liberatorio.
- Già! Ma io non l'avevo capito - rispose.
- Noi donne a volte siamo un po'... complicate! - ammisi.
- Lei non voleva assolutamente parlare, ma io non potevo farle del male - proseguì.
- Certo che no! - aggiunsi.
- Cercai di prendere tempo. Fu incarcerata ed io le portavo sempre da mangiare. Provai a convincerla a dire qualcosa... qualsiasi cosa, ma lei si rifiutava. Le dissi che non si trattava di un gioco, ma lei mi rispose che anch'io giocavo ad essere l'uomo che non ero...
- Vedi che anche lei la pensa come me! - dissi, sollevata.
- Questa storia proseguì per più di un mese e Omar, il mio superiore, mi ordinò di passarla per le armi, come esempio per i suoi presunti complici.
- Oh, no! - esclamai- E tu?
- Io feci finta di obbedire. Quando eravamo quasi arrivati al cortile, congedai la scorta e la liberai. Le dissi che c'era un camion in partenza per la città: doveva saltarci sopra e fuggire. Nadia voleva che io andassi con lei, ma non potevo disertare: avrebbero ucciso la mia famiglia!
- Arrivano a questo punto, nel tuo Paese? - chiesi.
- Purtroppo sì! - rispose.
Rimasi di pietra. Sayid proseguì ancora la sua storia:
- In quel momento sopraggiunse il mio superiore ed intuì tutto. Ci puntò la pistola e chiamò le guardie, ma io sparai e lo uccisi.
- Ma così avresti potuto essere passato tu per le armi!
- Pensai ad un piano: lei era riuscita a liberarsi ed aveva sparato ad Omar e a me.
- Come? - domandai, stupita.
- Mi sparai ad una gamba - mi fece vedere la cicatrice, sollevandosi i pantaloni e scoprendo la gamba poco oltre la caviglia - e la esortai a fuggire. Lei se ne andò. Non l'ho mai più vista, ma nel mio cuore c'è sempre stata la speranza che lei non fosse morta, che fosse riuscita a fuggire... sono passati 7 anni ed io penso ancora a lei!
Rimasi turbata dalle sue parole, non sapevo più che dire. Aveva avuto un bel coraggio a spararsi, a farla fuggire: sentii una stretta al cuore.
- A Los Angeles avrei potuto trovarla, invece ora sono intrappolato qui! - continuò.
Ad un tratto il suo volto s'illuminò:
- Ho delle sue foto: le vuoi vedere? - mi chiese.
- Certo! - risposi entusiasta.
In fondo ero stata io la prima a chiedergli di vedere le mie foto, era giusto fare altrettanto con lui.
Raggiungemmo la sua tenda e Sayid frugò nel suo zaino. Vi tirò fuori una busta un po' sgualcita, con sopra il suo nome, che conteneva alcune foto, e me le porse. Nella prima era raffigurata una ragazza, con il velo nero che le circondava il viso:
- Carina! - esclamai
- Grazie - rispose Sayid, sorridendomi.
Proseguii a guardarle: in una Nadia era vestita all'occidentale, senza velo.
- Ti auguro di andare via da qui e di trovarla, così sarete felici insieme.
- Lo spero - rispose pensieroso.

*"Mamma Anatra" era un nomignolo nato per ciò che avevo detto il secondo giorno sull'isola a Sayid. Siccome era stata la prima persona a prestarmi soccorso, io mi ero aggrappata a lui. Gli avevo detto che mi era capitato come agli anatroccoli, che scambiano per la mamma il primo essere vivente che incontrano ed io avevo incontrato lui. "Così io sarei la tua Mamma Anatra?", mi avevo riposto Sayid, ridendo, Sayid.
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Articolo di Simona LaFleur

5 commenti:

Dana ha detto...

Che bella Shera! La frase che mi ha colpito di più è quando dici che il tuo personaggio non riusciva a provare altro che compassione per Sayid. E' verissimo: la sua storia triste, fatta di errori e crimini orrendi, ha sempre cozzato col fatto che Sayid è anche un uono gentile e dolce. Le circostanze della vita, tuttavia, l'hanno portato a compiere cose terribili, di cui si pente amaramente ma che non può cambiare. Per una cosa del genere non si può provare altro che compassione. Per questo non mi è piaciuto il modo in cui l'hanno fatto morire: come avevai detto in un commento di un paio di giorni fa, non ci hanno dato il tempo di dirgli addio. La sua morte avrebbe dovuto essere meno frettolosa.

Sherazade ha detto...

Grazie Mander, x averlo pubblicato e grazie Dana x il tuo commento. Sayid meritava d +... in ogni senso!

Simona LaFleur ha detto...

Grazie a te per le cose belle che scrivi!

Sherazade ha detto...

:-)

Unknown ha detto...

"..la testa bassa verso le sue ginocchia, rannicchiate sul petto" Lo vedo.. Un colpo al cuore!