Come negli episodi precedenti, anche in questo Lynch procede con
lentezza, continuando un gioco da scatole cinesi dove continuano ad apparire
personaggi e ad aprirsi nuovi intrecci narrativi.
Nessun mistero accenna a diventare più chiaro, anzi tutto sembra
infittirsi con particolari che aggiungono carne al fuoco, facendoci intravedere
collegamenti che però al momento rimangono vaghi e inquietanti.
Si aggiunge, anche se in una breve inquadratura, una nuova e
sbalorditiva location: Buenos Aires, ma non sappiamo chi sia la donna dall’aria
nervosa e dal livido sulla faccia che ha pianificato, su commissione, l’omicidio di Dougie Jones e che sembra
piuttosto terrorizzata nell’apprendere che l’omicidio non è ancora andato a
buon fine, né riusciamo a capire cosa sia il misterioso apparecchio di Buenos
Aires che la donna attiva componendo un numero sul suo cellulare.
Rivediamo il cadavere senza
testa del Sud Dakota, dal cui stomaco il medico legale ha estratto la fede
nuziale di Dougie Jones.
E, naturalmente, rivediamo Dougie, alias Cooper, che non accenna a
recuperare la memoria né le capacità intellettive di un uomo normale e che
continua a muoversi come un bambino finendo per far arrabbiare il suo capo
nella società di assicurazioni per la
quale Dougie lavora.
Sebbene abbia riscoperto il suo amore per il caffè e sebbene alcuni
oggetti – la pistola di una statua, i fascicoli delle pratiche assicurative –
sembrino risvegliare in lui un improvviso interesse (“Case files” ripete trasognato quando il suo capo gliene appioppa
una pila da portare a casa), Cooper è poco più di un automa disorientato e solo
la vista del figlio Sonny Jim stranamente riaccende in lui qualcosa: una
lacrima gli scende sulla guancia mentre osserva il bambino seduto in macchina
pronto per andare a scuola.
La presenza di bambini rappresenta una delle novità meno indagate ma
assolutamente da non sottovalutare in questo nuovo Twin Peaks: oltre al figlio
dei Jones, che sembra trovare molto divertente questa versione goffa e robotica
del suo papà, un altro bambino ricorre nelle puntate: presumibilmente figlio
della giovane tossica che di tanto in tanto urla una sequenza di numeri (
“One-one-nine!”), il ragazzino osserva dalla finestra di casa sua la macchina
di Dougie Jones che è rimasta parcheggiata fuori dalla casa dove il sosia di
Cooper aveva trascorso la notte con una prostituta, Jade.
Incuriosito dall’auto – alla quale due sicari hanno applicato un
esplosivo – il bambino decide di andarla a vedere da vicino: è un momento di
pura tensione, in cui ci si aspetta che il bimbo innocente salti in aria.
L’arrivo provvidenziale di un gruppo di teppisti, intenzionati a
rubare l’auto, gli salva la vita: l’auto esplode insieme agli aspiranti ladri,
il piccolo è salvo…perlomeno dall’esplosione.
Nella filmografia di David Lynch non c’è mai stato troppo spazio per i
bambini, ma la lacrima solitaria sul volto di Cooper racconta qualcosa per cui
non servono parole: quell’impossibile desiderio di innocenza, che è da sempre leit motiv del cinema lynchano, sembra
adesso intenzionato a far posto anche a loro, bambini non particolarmente amati
e la cui esistenza sembra gravitare al di là del raggio di interesse degli
adulti.
Cosa vede Cooper – o quel che ne resta – nel piccolo viso un po’
triste e un po’ assente del bambino? Forse la stessa innocenza tradita che vide
il vecchio Cooper venticinque anni fa quando accarezzò dolcemente la mano di
Laura Palmer nella fredda stanza della Morgue.
E di innocenza corrotta e di giovani si torna a parlare anche a Twin
Peaks, dove altri vecchi volti del
passato fanno capolino nella storia: scopriamo che anche il miglior amico di
Bobby Briggs, Mike, ex atleta del liceo e invischiato anche lui nei traffici di
droga di Bobby, è adesso un tranquillo signore di mezza età che dirige un
ufficio e dà una bella strigliata ai giovani svogliati, come un certo Steven,
che scopriremo essere il fidanzato di Becky, la figlia di Shelley.
Scopriremo
che quest’ultima lavora ancora nel locale di Norma Jennings (sempre interpretata
da una Peggy Lipton più avvenente che mai) e che sua figlia Becky non ha avuto
più fortuna di lei nella scelta dell’uomo a cui si è legata: infatti come
Shelley ai suoi tempi commise l’errore di sposare il poco raccomandabile Leo
Jonhson, che riforniva di droga i ragazzi di Twin Peaks, anche Becky sta
insieme all’inetto e scapestrato Steven,un giovane che non sa tenersi un
lavoro,convince la compagna a elemosinare soldi da Shelley e spende i soldi
racimolati comprando cocaina che poi divide con la stanca ma debole Becky.
Fa tenerezza, questo nuovo personaggio, che incarna l’attuale gioventù
di Twin Peaks, che finora avevamo visto solo nella bizzarra apparizione di
Wally Brennan: interpretata dalla bellissima e angelica Amanda Seyfried, fa
irrompere nella storia il solito, marcio dramma delle cittadine di provincia,
abilmente nascosto dietro i sorrisi e l’apparente solarità dei suoi abitanti: e
sebbene è con il suo meraviglioso sorriso che Amanda Seyfried incanta gli
spettatori, quel sorriso ci lascia in bocca un sapore amarissimo, perché il
gioioso abbandono nel quale la ragazza precipita – con il capo reclinato sul
sedile della macchina, i capelli mossi dal vento, gli occhi luminosi più che
mai – è in realtà il sorriso drogato di una giovane che non ha granché per cui
sorridere alla vita.
Becky introduce nella storia una tematica già presente nelle due
stagioni precedenti e ci ricorda che, mentre gli ex giovani di Twin Peaks sono
maturati e hanno trovato il loro posto in società, la storia è destinata a ripetersi: le droghe circolano ancora in quel piccolo microcosmo dall’aria idilliaca che
è Twin Peaks, i genitori sono ancora incapaci di proteggere i loro ragazzi, il
Male e il dolore sono tra loro.
E in questa nuova piega narrativa, che in realtà ci era già stata
anticipata da un dialogo tra l’agente Bobby Briggs e lo sceriffo Truman, appare
particolarmente foriera di guai la figura del sinistro Richard Horne, giovane
rampollo della famiglia che ben conosciamo (ma ignoriamo ancora il grado di
parentela che lo lega alla famiglia): aria spavalda e modi spietati lo
connotano come uno dei principali villain della stagione.
Del resto, Twin Peaks, anche in passato, non si è mai accontentata di
un solo cattivo. E così, mentre il malvagio Cooper è in prigione e fa capolino,
in un riflesso allo specchio, per un
meraviglioso istante, persino il volto del demone Bob (che non tornerà nella
serie, vista la scomparsa dell’attore che lo interpretava, l’aiuto scenografo
Frank Silva), il mondo di Twin Peaks non rischia di restare a corto di malvagità: qualcuno o qualcosa di malvagio terrorizza la donna che vuole vedere morto
Dougie Jones, qualcosa di malvagio balena nell’espressione strafottente e
cattiva di Richard Horne. E nel mondo in generale.
Forse è proprio questo il pensiero che si nasconde dietro la lacrima
enigmatica ma struggente di Dale Cooper: che c’è troppa malvagità al mondo e
troppo poca innocenza.
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