Recensione (mild spoilery) del film "Ad Astra" di James Gray

Siamo davvero soli nell'universo? Gray risponde in maniera piuttosto perentoria alla domanda che ci chiediamo almeno da quando Yuri Gagarin ha messo piede sul suolo lunare.

TRAMA: L'ingegnere aerospaziale della NASA Roy McBride (Brad Pitt) viaggia fino ai confini estremi del sistema solare per ritrovare il padre Clifford McBride (Tommy Lee Jones) scomparso vent'anni prima durante una missione il cui scopo era quello di trovare vita extaraterrestre, ma si ritrova a svelare un mistero che minaccia la sopravvivenza del nostro pianeta e dell'intero sistema solare. Dopo essere sopravvissuto per miracolo a una caduta dallo spazio, il governo si rivolge a Roy credendo che sia l'unica persona in grado di trovare l'autore e fermare il processo di distruzione denominato il "picco": una letale onda d'urto che causa incendi in tutto il pianeta, guasti tecnologici e incidenti aerei. Incaricato di smantellare il progetto di suo padre e salvare il mondo dalla catastrofe, Roy abbandona sua moglie Eve (Liv Tyler) e parte per Nettuno alla ricerca di indizi sul fallimento della missione paterna. Ma, a volte, le risposte che cerchiamo rischiano di essere troppo difficili da gestire. Mentre affronta la missione infatti, l'astronauta finirà per rivelare alcuni segreti che mettono in dubbio l'esistenza dell'umanità e il suo stesso posto nell'universo.

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Ad astra...sì ma per aspera, tantissima aspera. Senza mancare di rispetto al paronimo amato da Virgilio, Cicerone, Orazio e Seneca, nonchè motto sul sigillo della flotta stellare in "Star Trek" (e
tradotto in codice Morse sul disco d'oro a bordo delle sonde Voyager inviate nello spazio alla fine degli anni 70), Gray ci avvolge nel suo punto di vista.

Attraverso la recitazione da manuale di Brad Pitt e Tommy Lee Jones, vittime di un'angoscia cosmica non-per-modo-di-dire restiamo confusi e sofferenti per tutta la durata del film.
Solo il prologo basterebbe a plaudire la maestria visiva di Gray, aiutato nella fotografia da Hoyten van Hoytema, lo stesso direttore di "Interstellar" di Christopher Nolan e con gli spazi sonori (o meglio NON sonori com'è realisticamente plausibile e già ci ha insegnato "Gravity" di Alfonso Cuarón) e musicali gestiti dal grandisssimo Max Richter ("Black Mirror, "Shutter Island", "The Leftovers", per limitarci a tre).

Il comandante McBride ci fa sapere continuamente che le sue funzioni vitali sono a posto, che i battiti sono nella norma, ma percepiamo anche il vuoto lasciato dall'assenza del padre con conseguente cattiva gestione delle proprie emozioni e dei propri affetti. E una solitudine infinita.
"Sto bene, pronto al fare il mio lavoro al meglio delle mie capacità. Ribadisco il mio fermo impegno a completare la missione secondo le regole, se necessario distruggerò il progetto nella sua totalità".

Ma è solo lui al limite dell'autismo o forse tutti noi dovremmo fermarci un attimo a riflettere su quali sono le nostre priorità? Stiamo facendo tutto il possibile per i nostri cari, per il futuro dei nostri figli, per il nostro pianeta? Quante volte diciamo che stiamo bene e ci facciamo trascinare dalla routine e dagli obblighi (spesso presunti)?

Nel momento di maggiore shock della sua esistenza l'unica cosa che gli viene detta è che i parametri vitali sono leggermente sfasati e ha i battiti troppo accelerati, non un "Stai tranquillo", un abbraccio, niente che riporti al lato umano. Non solo è stato usato come cavallo di Troia per stanare il proprio genitore ma non viene mostrato alcun rispetto per i suoi sentimenti. E nella realtà quanto spesso notiamo la funzionalità asettica nei rapporti sociali e la mancanza di una vera morale?

Ecco la rappresentazione dell'alienazione, quella vera, in una delle sue forme più vivide.

La dimensione onirica che strizza l'occhio a Kubrik non poteva mancare ma, mentre in "2001" viviamo un sogno parzialmente inquieto qui siamo decisamente dentro un incubo. Incubo più a là "Cuore di tenebra", con tanto di Clifford/Kurtz nonostante la lontananza nell'ambientazione, lì coloratissima e chiassosa, qui nerissima con poco giallo e terribilmente silenziosa, sempre con la stessa ossessione per la conoscenza.

Ma il dilemma principale è quello atavico: continuare a perpetrare le colpe dei padri o evolversi in qualcosa di diverso? Subire il proprio destino o dominarlo?

Non siamo in presenza di un capolavoro ma la grande metafora che hanno voluto rappresentare Gray e Pitt (anche produttore) è chiarissima. L'unica pecca (o forse è voluto) è che il film stesso cadrebbe nel vuoto in assenza di gravità se non fosse retto dalla profondità del personaggio ambiguo creato da Pitt, che a volte spiega a parole ma spesso gli bastano gli occhi.

Ah, nello spazio non ci sono E.T. - e questo non è un grande spoiler- ma solo le povere scimmie da laboratorio che abbiamo mandato noi. Sono furiose e letali. E vorrei vedere... 


VOTO: 3.5/5

 



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Articolo di Simona LaFleur

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