17 febbraio 2019

TRUE DETECTIVE - Altro che prima stagione. Recensione degli episodi 3x04-05-06



Recensendo i primi tre episodi dell'atteso ritorno di True Detective ci siamo mostrati fiduciosi. Superata la metà della terza stagione, possiamo dirci ora definitivamente conquistati.
In primo luogo ci troviamo di fronte a un cast impeccabile cui calzano a pennello personaggi caratterizzati nel profondo e indagati nell'animo a trecentosessanta gradi. Dal protagonista indiscusso interpretato da Ali Maehrshala (Moonlight, Luke Cage, Green Book) a Stephen Dorff (Blood and Wine, Blade) passando per Carmen Ejogo (Fantastic Beasts and Where Find Them) e Scott McNairy, questa terza stagione ha livello attoriale talento da vendere.

Esemplare la scena del quinto episodio dove Wayne e Roland si incontrano dopo ventiquattro anni di silenzio. Nella sua versione invecchiata Maehrshala raggiunge l'apice della sua interpretazione, il suo personaggio, ridotto a un'indifesa e insicura creatura, ci trasporta con passo caracollante nell'oblio del proprio passato.


Il titolo di questa recensione è un mero click bait per provocare gli inamovibili fan di una prima stagione ineguagliabile e i detrattori di una seconda stagione forse sottovalutata.


La terza stagione non è migliore della prima, la prima non è migliore della seconda. Se c'è una cosa cui True Detective è infatti sempre stato fedele è innanzitutto la sua natura antologica. Essendo ogni stagione a sé, con personaggi, storie e location diverse, è del tutto accettabile che esse si differenzino tra loro anche a livello qualitativo.


Inopinabile è lo scarso successo ottenuto da una seconda stagione molto dissimile dalla precedente, così come indiscutibile è l'impegno degli autori nel cercare di soddisfare con questa nuova stagione le aspettative dello spettatore, ragionamento giusto o sbagliato che sia, tornando con scrupolosa ricerca sulle orme della serie.


Quello che nella scorsa recensione abbiamo definito uno studio filologico dello show non va tuttavia confuso con un banale adattamento della prima stagione a nuovi personaggi e a un nuovo caso. Questa era l'impressione che si poteva avere una volta accese le luci sul primo episodio, gustandosi la sigla di apertura e affacciandoci su Impressione che, fortunatamente, veniva smentita pochi minuti dopo con la decisione di splittare su tre timeline differenti, anziché due, lo svolgimento degli eventi.


La differenza più grande con la prima, indimenticabile stagione, tuttavia, è qualcosa che ha a che fare con i tremi trattati non al centro della storia, bensì ai margini della strada percorsa dai detective protagonisti.


Laddove Rust Cole si perdeva in monologhi esistenzialisti e veniva indagata la natura umana, nell'Arkansas di Wayne Purple Hayes e Roland West tocchiamo con mano realtà scomode radicate nella società americana (e non solo) come le questioni razziali, l'omofobia, la pedofilia, la droga e soprattutto le conseguenze della guerra, rumoroso sfondo per tutta la stagione. 


Ciò di cui si parla in questo nuovo arco narrativo è in qualche modo palpabile, estremamente tangibile e attuale anche quando solamente sfiorato. La teoria del complotto poi, verso cui anche il caso Purcell sembra volgere, è poi un potente collante di tutta la serie (anche della seconda stagione).



Ci rimane ancora molto da scoprire, ma i nodi vengono ormai al pettine. Al centro di tutto sembra esserci Hoyt, misterioso magnate della contea in cui si svolgono gli eventi centrali della stagione che ora sappiamo (grazie alla fotografia che Wayne guarda nell'ufficio di Harris) essere interpretato da Michael Rooker (The Walking Dead, Guardians of Galaxy).

Nonostante manchino ancora alcuni tasselli alla soluzione finale è indubbio che Hoyt vesta il ruolo di villain principale o comunque attore centrale nel grande disegno che sembra celarsi dietro un apparente caso di rapimento. A conferma di ciò gli ultimi secondi dell'episodio Hunter in the Dark, in riferimento ai detective ma anche a tutti coloro che continuano a indagare, come la stessa Amelia, ci mostrano l'apertura delle porte dell'enigmatica Stanza Rosa, luogo citato da coloro che hanno incrociato la strada di Mary July (ovvero Julie Purcell) e nella quale ha fatto il suo ingresso Tom Purcell sulle tracce del nome fornitogli da Den O'Brien (probabilmente proprio quello di Hoyt). Questo luogo, di una potenza allegorica che richiama senza blasfemie la black lodge della mamma delle serie televisive contemporanee, cela senza dubbio atrocità di cui a breve verremo messi a conoscenza.

A giudicare dagli ultimi attimi di puntata viene da pensare che Harris metterà a tacere Tom, o lo porterà al cospetto di Hoyt in persona, mentre rimane un mistero quale sia il grande segreto che Roland e Hays hanno taciuto per oltre un ventennio. A soli due episodi dal season finale non ci resta che trattenere il fiato e speculare su decine di teorie, a partire magari da chi sia l'uomo con l'occhio guercio che nel 1980 ha venduto le bambole ai bambini del quartiere e che dieci anni dopo accusa Amelia di avere guadagnato sul dolore dei due fratellini (e come dargli torto?) o cos'ha fatto o sapeva Lucy per far sì che Hoyt ne inscenasse il suicidio?


Ci risentiamo in occasione del finale, STAY TUNED!




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