La sesta stagione di American Horror Story è decisamente la più imprevedibile di tutte, non solo per la voluta mancanza di informazioni dateci fino all'uscita del primo episodio, ma soprattutto dalla quantità di misteri tuttora irrisolti, alla conclusione effettiva della prima parte. Inutile dire che questa storia ha tutta l'aria di essere il soggetto della principale e più ampia linea narrativa che ancora deve arrivare. Troppe sono le parentesi lasciate aperte e dato che sarebbe sacrilego accusare preventivamente Ryan Murphy e Brad Falchuk (forse meno sacrilego dopo la quinta stagione), preferirei concentrare l'attenzione sui tre principali punti di forza di Roanoke, cercando di restare il più oggettivo possibile e di non farmi traviare dalla bravura del cast.
Primo ed indiscutibile punto di forza, il genere del mockumentary, il falso documentario nello stile de Il quarto tipo. Questo genere è originalissimo nelle serie tv, meno, ma comunque tale, nel cinema horror, e sempre più apprezzato. Inoltre, se questo non dovesse essere sufficiente, ricordiamo che se da una parte quei geni di Murphy e Falchuk fanno l'occhiolino al pubblico appassionato di trame in questo genere, dall'altra ci dicono che in questa modalità la storia è nata ma non è detto che così proseguirà, o almeno non con la stessa "ragione di vita".
Secondo
punto a favore: la semplicità della vicenda. Certo, in cinque
episodi c'è meno tempo di perdersi in dettagli o aggiungere rami
secondari da intrecciare alla sventurata avventura di Shelby e Matt
in confronto alle 12/13 puntate delle scorse stagioni; ma se questo
serve a rendere il tutto più verosimile e realistico (rimanendo
comunque ben ancorati all'irrealismo alla base del genere horror),
tanto di guadagnato. E forse la sesta stagione è più spaventosa
proprio per questo, per la semplicità e la linearità della vicenda,
in confronto all'esagerazione e al conseguente appesantimento del
plot delle passate stagioni, soprattutto in Freak Show e ancor di più
in Hotel.
Il
terzo punto, ma strettamente legato al secondo, è oramai un
leitmotiv della nostra serie tv: la grandezza del cast. Siamo sempre
stati abituati alla bravura di Sarah Paulson, Kathy Bates, Denis
O'Hare, Angela Bassett, Frances Conroy, Evan Peters e così via, ma
per una strana ragione, che tanto strana non è, in questa stagione
sono perfettamente a loro agio. Questo perché i protagonisti
rispecchiano canoni di persone semplici, più vicini allo spettatore,
più comuni. E la loro bravura è quindi maggiormente compresa e
premiata dal pubblico, che si immedesima più facilmente ad una
Shelby che ad una Sally, ad una Lee piuttosto che ad una Ramona.
Piccola parentesi (avevo promesso a me stesso di non lasciarmi
traviare, me ne rendo conto): il personaggio di Mama Polk
rappresentato dalla nostra Frances Conroy è particolarmente
affascinante e magistralmente interpretato.
Questi sono solo tre dei tanti punti che fanno sì che questa stagione sia (per ora) più gratificante della precedente, nonostante sia ben lontana, per carattere, anche dalla prima o dalla quarta. Le sorprese però non sono finite. Anzi, probabilmente devono ancora iniziare.
Questi sono solo tre dei tanti punti che fanno sì che questa stagione sia (per ora) più gratificante della precedente, nonostante sia ben lontana, per carattere, anche dalla prima o dalla quarta. Le sorprese però non sono finite. Anzi, probabilmente devono ancora iniziare.
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