Correva l’anno 1990, quando il regista
David Lynch, già all’epoca noto al grande pubblico per i suoi conturbanti
lavori cinematografici (Eraserhead – La mente che cancella, The Elephant Man, Velluto Blu) e il produttore televisivo Michael Frost, che si era
fatto conoscere negli anni Ottanta con lo spettacolo televisivo Hill Street
Blues, si rivolsero a un network nazionale, allora in crisi, l’American
Broadcasting Corporation, per presentare il progetto di una nuova serie
televisiva sulla quale i due ragionavano già da qualche anno. Ricevuto dal
network il nullaosta a procedere dopo la visione del pilot, i due autori
riuscirono ad accordarsi con la rete per poter lavorare indisturbati, senza il rischio
d’incorrere in un controllo da parte della produzione che interferisse sulle
loro scelte creative.
La prima puntata va in onda sul canale
della ABC l’8 aprile del 1990 ed è
subito un “cult” senza precedenti nella storia del piccolo schermo: come se la familiare, bonaria quotidianità
del mezzo televisivo avesse appena subito una virata in un universo finora
sconosciuto al pubblico e alla critica, abituati a prodotti senza dubbio ben
confezionati, che si erano trasformati in veri e propri “cult” (come The Prisoner, Star Trek, Doctor Who e Max
Hedroom, per citare i principali), senza però aver mai infranto i tabù che
sembravano tacitamente proteggere il rassicurante modello delle serie
televisive degli anni Ottanta.
Mai tuttavia una serie si era guadagnata
l’etichetta di “cult” in così poco tempo. Già dalle prime puntate, l’entusiasmo
dell’audience raggiunge livelli altissimi. In conseguenza a un simile successo
appare Il diario segreto di Laura Palmer,
scritto da Jennifer Lynch, figlia del regista; si costituiscono centinaia di
fan-club che organizzano raduni per vedere insieme gli episodi; la piccola
cittadina di North Bend, nello stato di Washington, dove la serie è stata
girata, diviene addirittura meta di pellegrinaggi al punto che il “MAR-T Cafè”,
la caffetteria di North Bend trasformata dalla troupe di Twin Peaks nel ristorante di Norma Jennings, fu a lungo
letteralmente presa d’assalto dai turisti che venivano a gustare la memorabile
torta di ciliegie e il buon caffè tanto decantati dall’agente Cooper!
La detective story in Twin Peaks
Twin
Peaks è, come ormai tutti sappiamo,
una serie tv che basa il suo plot principale su uno sviluppo tipicamente
“giallo”, ma si tratta di un giallo atipico, ossia un poliziesco che finisce in
realtà per trasgredire tutte le regole convenzionali del genere.
Tutto inizia dal ritrovamento del
cadavere di una bella e popolare adolescente in una sonnolenta cittadina del
nordovest degli Stati Uniti e dall’arrivo sul posto del brillante agente
investigativo dell’FBI, Dale Cooper, inviato per coordinare le non troppo
preparate autorità locali. Gli elementi iniziali della serie indirizzano subito
lo spettatore verso il più classico dei gialli, ma già dalle prime puntate
vedremo cadere, uno dopo l’altro, tutti i topoi
classici del genere, a cominciare proprio dalla figura di Dale Cooper che
dominerà, incontrastata, non soltanto la scena del crimine, ma l’anima stessa
della serie. Secondo alcuni critici, infatti, la detective story, che
costituisce il plot principale di Twin
Peaks, è in realtà solo l’espediente per delineare il cammino iniziatico
del giovane Cooper, che dalla dimensione raziocinante dell’ordine e della legge
si farà sempre più coinvolgere in un regno arcano, affascinante e pericoloso,
fino a “fondersi” del tutto con il lato oscuro di questo mondo. In ciò, emerge
subito una vistosa incrinatura nella struttura poliziesca classica: il
detective è solitamente colui che fa luce sul mistero, sconfigge il Male e
ricostituisce l’ordine violato, proprio perché non lascia che la sua
razionalità e la sua fredda logica siano deviati da tutti quegli aspetti
conturbanti e apparentemente inspiegabili che si nascondono dietro ogni delitto.
Non così Cooper: egli, innanzitutto,
unisce alle sue brillanti doti di “segugio razionale”, un intuito fuori dal
comune, più vicino a una sensibilità paranormale che a una qualità
intellettuale. In seguito a un sogno, ha cominciato a credere ciecamente nella
filosofia tibetana e applica all’indagine metodi a dir poco bizzarri (colpendo
una bottiglia con un sasso, scopre il nome di uno degli uomini che ha abusato
di Laura la notte dell’omicidio). Inoltre, nel corso dell’indagine, Cooper
riceverà aiuti preziosi da parte di apparizioni soprannaturali, messaggi
interstellari e strani personaggi, come la signora Ceppo, fino ad arrivare a
quel grandioso “paradosso” che è l’incontro, in sogno, con la stessa Laura
Palmer, la quale rivelerà a Cooper in un orecchio il nome di chi l’ha uccisa.
Ecco, dunque, che l’intero impianto
poliziesco – le indagini, gli esami della scientifica, gli interrogatori ai
possibili indiziati – diventa un “circo” di puro intrattenimento, perché la
chiave per risolvere il crimine è già tutta qui, nel sogno di Cooper, che l’ha
però rimossa, una volta sveglio, relegando la soluzione del caso (il nome
confidatogli dalla stessa vittima) nel proprio subcosciente. Va, però,
sottolineato come tale processo di “derazionalizzazione” del detective in Twin Peaks, per dirla con un’espressione
di Angela Hague, non vada caricato di un
significato sbrigativo e fuorviante: Cooper non abbandona la logica, al
contrario la usa per decodificare i misteriosi messaggi paranormali. Il suo
misticismo non si traduce mai in una condotta irrazionalistica e istintiva; al
contrario, egli è calmo, compassato, misurato. E’ tuttavia consapevole dell’inadeguatezza
della ragione come unico metodo d’indagine e disposto a credere a tutto ciò che
la razionalità ci porta a negare: una fiducia nel mistero e nell’incredibile
che caratterizzerà altri due famosi personaggi della fiction televisiva degli
anni ‘90, il Fox Mulder di X-Files e
il Frank Black di Millennium.
Tale atteggiamento lo si può
rintracciare, in forma più semplicistica, anche in altri personaggi che aiutano
Cooper durante la sua indagine: lo sceriffo Truman, con il quale Cooper stringe sin dall’inizio un
fraterno sodalizio, non mette mai in dubbio i metodi del suo brillante quanto
stravagante amico, tantomeno la veridicità dei messaggi sibillini che egli
riceve in sogno dagli spiriti; il maggiore Briggs, sorprendentemente, non
incontrerà alcuna difficoltà a credere nell’esistenza di Bob, dichiarando che
“ci sono molte più cose fra il cielo e la terra di quanto l’uomo ne possa
pensare”; e persino il cinico Albert
Rosenfield, esperto di scientifica, cercherà una mediazione fra le due opposte
espressioni del Male, quella fisica di Bob il serial killer, e quella
metafisica di Bob il demone, arrivando alla conclusione che Bob “rappresenta il
male che ognuno è capace di fare”.
Se è vero che Cooper distrugge quasi tutte
le regole tradizionali del classico detective, anche la figura di Laura Palmer è
molto diversa da quelli della classica vittima. Secondo Andreas Blassmann, il
rapporto detective-vittima, nel racconto giallo, nasconde quasi sempre la
visione intrinsecamente maschilista della nostra società: il detective,
infatti, sempre maschio, detiene il potere attraverso lo sguardo, è dunque un
soggetto attivo che interagisce con la realtà che lo circonda, mentre la
vittima – molto spesso donna – viene relegata nel ruolo di un impotente oggetto
dello sguardo (maschile), un corpo già violato dall’assassino, che una fredda e
impersonale analisi condotta dal detective violerà ancora. La sua unica qualità
è la bellezza: una bellezza inerte, resa semmai ancora più suggestiva dalla
morte.
Proprio in virtù di questa opposizione
- attività/passività, soggetto/oggetto,
mente/corpo - il detective non può trovare identificazione con la vittima, anzi
è portato a distaccarsene violentemente, poiché sente di dover proteggere la
propria virilità, espressa attraverso quella condotta raziocinante, controllata
e logica, dalla minaccia di quel disordine esistenziale che un contatto con la
sua parte femminile porterebbe nel suo mondo. Non è un caso, che per trovare l’assassino, il detective
debba spesso identificarsi con lui, ricostruendone la logica perversa.
All’inizio della storia di Twin Peaks, tutto questo sembra doversi
ripetere, a cominciare dalla rappresentazione di Laura Palmer che, avvolta nel suo sacco di plastica,
appare splendida anche nella morte, circondata da un’aura di innocenza violata
che fa subito piangere il sensibile poliziotto Andy Brennan. Né sembra molto
diverso il tipo di rapporto che si stabilisce fra lei e il giovane detective
giunto a Twin Peaks per indagare. In un primo momento, quando Cooper esamina
per la prima volta il cadavere di Laura Palmer, il suo atteggiamento è improntato
ad un professionale distacco, ma successivamente tale rapporto cambia e lo si
capisce nella scena nella quale Cooper, dopo aver scacciato dalla sala
dell’autopsia il cinico Albert Rosenfield, accarezza dolcemente una mano della
ragazza, a mo’ di conforto. Tale atteggiamento di Cooper rivela un sentimento
di empatia e di affettuoso rispetto verso la ragazza. Ma non solo. Egli, addirittura,
la incontrerà in sogno e sarà da lei indirizzato verso la scoperta del
colpevole dell’orrendo delitto.
E’ significativo il fatto che Cooper non
abbia alcun legame mentale con l’omicida (maschile), mentre ne ha con la
vittima (femminile). Accettando di ascoltare Laura Palmer, Cooper dimostra
simbolicamente la sua disponibilità ad accogliere il proprio lato femminile,
unendo così l’emotività alla razionalità.
Tuttavia il ruolo di Laura Palmer
all’interno di Twin Peaks non si
limita al suo rapporto esclusivo ed originale con Cooper. Innanzitutto, non
sarebbe improprio definire Laura come uno dei tanti personaggi della serie dal
momento che, anche dopo la morte, l’ex-reginetta del liceo continua ad essere
una presenza in Twin Peaks, non
tanto, e non solo, perché vi è materialmente tornata nei panni della
cugina/sosia Maddy, anch’essa interpretata dall’attrice Sheryl Lee, quanto
perché il suo spirito sembra costantemente aleggiare intorno ai personaggi,
“guidando” le visioni di sua madre Sarah ed entrando sempre più prepotentemente
non soltanto nella vita del detective ma anche in quella dei suoi amici, come
James, Donna ed Audrey che, ad un certo punto, cominceranno a condurre delle
indagini personali lasciandosi gradualmente risucchiare dal torbido e
misterioso mondo nel quale la ragazza era scivolata.
«Chi era Laura Palmer?», ci si chiede
subito dopo la prima puntata. A un livello più superficiale, una ragazza che
racchiude in sé tutte le contraddizioni dell’adolescenza, portate all’estremo:
figlia modello, studentessa popolare, cittadina benvoluta e amata da tutti; ma
al tempo stesso, una ragazza profondamente tormentata, che la droga e il sesso
violento avevano trasformato in una nera regina della corruzione. Ma tale ambiguità,
che in Laura raggiunge il parossismo, viene estesa da Lynch all’intera
cittadina, questa Peyton Place in versione grottesca e visionaria. Scopriremo
presto che tutti i personaggi di Twin
Peaks, nessuno escluso, hanno una “doppia” faccia o, nel migliore dei casi,
un segreto (non necessariamente riprovevole) che devono tenere lontano dagli
occhi e dalle coscienze dei loro concittadini; anche il bonario sceriffo
Truman, uno dei personaggi più lineari della serie, non sfugge a questa
“regola”, rivelando a Cooper di appartenere a una fratellanza segreta, i
Bookhouse Boys, istituita per combattere il “male antico che vive nei boschi”;
e persino l’ingenuo Pete Martell, uomo semplice ai limiti della mediocrità,
sorprenderà Cooper nella seconda
stagione, rivelandosi un geniale
giocatore di scacchi!
Va però precisato che questa ambivalenza,
che connota ogni singolo abitante di Twin
Peaks, non è stigmatizzata da Lynch, ma è anzi inquadrata in una cornice
normalizzante e mai moralistica. Stilisticamente, ciò emerge anche dalla scelta
di adottare, per tutto il corso della serie, un’immagine accogliente e
tranquilla, una fotografia che predilige luci “morbide”, generalmente prive di
forti contrasti, a sottolineare che la
convivenza degli opposti – il bene e il male, la luce e le tenebre, l’innocenza
e la colpa – è l’essenza naturale di
ciascun essere umano, cosicché
anche gli eccessi della vita di Laura non suscitano scalpore, né tantomeno
condanne, ma vengono presentati come semplici fatti, che l’indagine di Cooper e
Truman registra, sospendendo al tempo stesso ogni giudizio.
In questo senso, anche l’omicidio di
Laura si apre a un doppio livello di lettura: sul piano psicologico-narrativo,
esso scaturisce dalla gelosia patologica di un padre che nutre una passione
incestuosa verso la propria figlia, mentre sul piano metaforico esso
rappresenterebbe la reazione censoria e punitiva di una comunità nei confronti
di chi non si conforma alle regole del ruolo sociale che le è stato imposto. E
dunque, in tale prospettiva, ancora più sintomatico deve apparire il fatto che
il responsabile dell’omicidio sia proprio Leland Palmer: poiché la soggettività
femminile minaccia il potere maschile e mette in crisi l’ordine patriarcale su
cui questo potere si fonda, il Male non può trovare rifugio migliore se non in
un tipico esponente della middle class di provincia, un amorevole padre di
famiglia, un brillante avvocato, un cittadino modello, il cui lato oscuro,
tuttavia, va molto oltre l’illecito e la cui doppiezza risulta troppo
abominevole per poterla rappresentare in termini di umana accettazione.
Questo ci porta, inevitabilmente, alla
domanda iniziale di Twin Peaks: «Chi
ha ucciso Laura Palmer?».
Dopo una stagione e mezza, precisamente al
quindicesimo episodio, il pubblico di Twin
Peaks può dare finalmente un volto e un nome al misterioso assassino di
Laura Palmer.
Con la rivelazione “choc” dell’identità
dell’assassino, si apre uno dei temi più inquietanti della serie: l’incesto,
argomento tabù mai prima d’ora affrontato in una serie televisiva.
Lynch e Frost, tuttavia, anche in questo
caso, decidono di non affidarsi a una conclusione univoca e lineare del caso e
di trasformare la storia di un delitto morboso e aberrante in una vera e propria
storia dell’orrore, con tanto di entità demoniaca.
Ma dove esattamente finisce Leland, e
dove inizia Bob? Da un punto di vista visivo, le due personalità appaiono ben
distinte: mentre Leland si muove in un tempo e in uno spazio reali, all’interno
di una fotografia calda, naturalistica, ben definita, Bob si muove in un tempo
diverso, dove l’uso del ralenti e
l’effetto abbacinante di una forte luce bianca sembrano relegare la sua oscena
voluttuosità nei confronti di Laura in una dimensione irreale. Ma, da un punto di vista tematico, la
distinzione diventa più problematica e lascia, di fatto, il mistero
dell’assassino di Laura Palmer irrisolto, contravvenendo, ancora una volta,
alle regole del genere: certo è stato Leland a compiere materialmente i due delitti,
anzi tre, se si considera anche l’antefatto di Teresa Banks, ma al tempo stesso
Leland non può dirsi responsabile di questi crimini, né della sua relazione
incestuosa con la figlia Laura.
L’idea che uno spirito del Male sia il
vero artefice di questa orrenda storia ha lasciato buona parte della critica e
del pubblico americano insoddisfatto, tanto che molti critici, come Warren
Goldstein, vedono nella soluzione soprannaturale un palliativo per rendere
narrativamente più accettabile il tema del delitto a sfondo incestuoso.
L’allontanamento da questo tema brutale è
ripreso anche nel momento della morte di Leland, in cui quest’ultimo, dopo
aver parlato di sua figlia come di una
martire, sostiene di riuscire a vederla, bellissima e serena, all’interno di un
tunnel di luce, cosicché l’agente Cooper potrà in seguito riferire a Sarah
Palmer che Leland e Laura sono finalmente riuniti in un rapporto felice, come
padre e figlia.
Del resto la violenza familiare, che pure
è uno dei temi che maggiormente ricorre nell’immaginario lynchano (pensiamo a Cuore selvaggio), è un dramma che non
può trovare risposte e per il quale non esiste una comprensione riparatrice,
come si evince dalle parole accorate di Cooper che allo sceriffo Truman,
scettico circa la possessione demoniaca di Leland, domanda: «Harry, preferisci
forse credere che un padre abbia violentato e ucciso la propria figlia? Ti
sentiresti più rassicurato?».
E tuttavia è riduttivo pensare che il
ricorso al soprannaturale venga utilizzato da Lynch solo per alleggerire e
mitigare l’oscena, intollerabile violenza che si nasconde sotto la superficie
dell’impeccabile rispettabilità borghese.
E’ anzi evidente come il soprannaturale
sia elemento-chiave della serie e vero motore della sua originalità.
Dopo la soluzione del delitto Palmer, i
contatti di Cooper con il soprannaturale non cesseranno, anzi il soprannaturale
giocherà un ruolo ancora più centrale quando la vicenda poliziesca si sposterà
su una nuova indagine di Cooper e Truman. Perno di questa nuova indagine sarà
la caccia a Windom Earle, pericoloso psicopatico giunto a Twin Peaks,
apparentemente, per mettere in atto una vendetta personale ai danni di Cooper,
che invece scopriremo essere solo un espediente per distogliere l’attenzione di
quest’ultimo dal vero motivo che lo ha condotto nella cittadina, ovvero la
ricerca della misteriosa Loggia Nera, sede di forze occulte e di poteri
demoniaci. Secondo la critica, questa seconda parte di Twin Peaks è stata caratterizzata da una sostanziale debolezza narrativa,
che ha portato buona parte del pubblico, sia americano che straniero, ad
abbandonarne la visione. E’ innegabile che la maggior parte del fascino di Twin Peaks resta legato tutt’oggi a quel “tormentone” che
ha fatto chiedere a tutto il mondo «Chi ha ucciso Laura Palmer?». Ma se,
narrativamente, il revenge-plot di
Windom Earle non ha convinto pubblico e critica, dall’altro lato esso permette
a Lynch di continuare a sviluppare il suo discorso visionario, concludendo al
tempo stesso tutti quei subplots o quelle questioni che erano rimaste in
sospeso.
Cerchiamo ora di passare rapidamente in
rassegna i principali eventi, di natura bizzarra e inspiegabile, che fanno la
loro comparsa nel tessuto della storia. In ordine di apparizione, essi sono: il
sogno di Cooper nella Stanza Rossa, che scopriremo trattarsi di un vero e
proprio contatto con l’aldilà; le apparizioni del Gigante che fornisce a Cooper
alcuni indizi riguardanti l’indagine; l’uccisione di Maddy ad opera di
Leland/Bob; l’apparizione di Bob a Cooper nel momento della morte, improvvisa e
inspiegabile, di Josie Packard; l’ingresso di Cooper nella Loggia Nera, dove
egli incontrerà una lunga galleria di fantasmi, del presente e del passato,
prima di soccombere del tutto alla possessione di Bob.
Se in un primo momento il legame tra
mondo fisico e mondo metafisico passa attraverso due comuni espressioni
dell’inconscio – il sogno e l’allucinazione – gradualmente il soprannaturale
tenderà a svincolarsi da qualsiasi contesto psichico, come si evince già alla
terza visita del gigante, quando quest’ultimo appare sul palcoscenico della
Roadhouse per avvertire Cooper della morte di Maddy. Se infatti, durante le
precedenti apparizioni, Cooper si trovava in condizioni di semincoscienza (la
prima volta che il gigante si mostra a Cooper questi, appena colpito da un
proiettile, non è in possesso delle sue facoltà mentali; la seconda volta,
invece, è addirittura addormentato), in seguito egli è completamente sveglio e
non può dunque attribuire l’apparizione ad uno stato onirico.
Anche nella scena immediatamente
successiva, quando vedremo Leland trasformarsi in Bob, la possibilità che tale
sdoppiamento avvenga solo nella mente malata di Leland è smentita dall’urlo
agghiacciante lanciato da Maddy alla vista dello zio. Da questo momento in poi,
le apparizioni non avranno più bisogno di particolari condizioni psicologiche
per palesarsi.
Ecco dunque che il soprannaturale ha
cambiato registro: esso appare inizialmente in forme e contesti familiari e
soggettivi (il sogno), per diventare sempre più minaccioso, incontrollabile e
“oggettivo”.
Questo progressivo cambiamento trova il
suo clou nell’ultima puntata del
serial, quando Cooper decide di avventurarsi nella Loggia Nera, che altro non è
se non la Stanza Rossa dei sogni di Cooper cambiata di segno: tutto ciò,
infatti, che lì era rassicurante, qui assume carattere ostile e malvagio.
Persino l’incontro con Laura Palmer sarà rivissuto da Cooper in chiave
minacciosa, poiché la ragazza, alla vista di Cooper, proromperà in una serie di
urla laceranti con il volto deformato da una smorfia vampiresca. Se nella
Stanza Rossa Cooper sedeva tranquillo e composto, come in un qualsiasi salotto
borghese, qui è costretto a spostarsi continuamente da una stanza all’altra,
percorrendo un inquietante corridoio, fiancheggiato da tendaggi rossi, tutti
uguali; se nella Stanza Rossa, la luce aveva una tonalità calda e confortevole,
qui la luce assume uno stato di instabilità stroboscopica al fine di aumentare
l’effetto di straniamento di Cooper e dello stesso spettatore.
Ma, in definitiva cos’è la Loggia Nera? E
in che rapporto sta con la precedente Stanza Rossa nella quale Cooper era
entrato con tanta fiducia? Lynch non dà alcuna indicazione per spiegare queste
due realtà, al tempo stesso simili e opposte, dobbiamo quindi limitarci a
vederle solo in relazione al personaggio di Dale Cooper, che in realtà
corrisponde alla struttura narratologica dell’intera serie: attraverso di lui,
infatti, Twin Peaks sperimenta la
doppia accezione del soprannaturale, in termini di meraviglioso (la Stanza
Rossa) e d’inquietante (La Loggia Nera).
Secondo Angela Hague, l’invasione di Bob
ai danni di Cooper è proprio l’inevitabile conseguenza dell’apertura psichica
che caratterizza il suo “ego elastico”: cosicché, per capire la natura del
male, egli deve sperimentarlo completamente, fondendosi con esso.
Se dunque durante l’indagine Palmer il
soprannaturale rappresentava, metaforicamente, quella condizione ideale di
apertura verso l’irrazionale e l’inconscio, in una fiduciosa accettazione di
tutti quegli aspetti trascendentali e inesplicabili della condizione umana, ora
esso si presenta come “anticamera” della fascinazione e del potere invasivo del
Male, inteso non tanto in senso religioso o morale, quanto come regno del caos
e della paura primordiale (anche narrativamente, infatti, è la paura ad aprire
il portale che conduce alla Loggia Nera) che si contrappone ai valori di ordine
e raziocinio della civiltà.
Il plot poliziesco in Twin Peaks, con tutte le sue
implicazioni metafisiche e soprannaturali, costituisce senza dubbio la maggior
attrattiva della serie. Tuttavia, non si può negare Twin Peaks sia anche un prodotto estremamente divertente, pieno di
personaggi esilaranti e di scene a dir poco memorabili. Basti pensare che il
cast di Twin Peaks conta oltre
quaranta personaggi stabili, più quelli, altrettanto numerosi, la cui
permanenza nella serie è di durata molto breve
o sporadica. Ovviamente non tutti i personaggi vengono coinvolti
nell’indagine di Cooper e la maggior parte finisce per sviluppare storie
autonome, secondo uno schema che rimanda immediatamente alla soap opera. Uno
dei tanti meriti di Twin Peaks è
infatti quello di aver saputo ibridare, in maniera ironica e brillante, i tre
principali generi della fiction televisiva degli anni ‘80, il poliziesco, la soap opera e la sitcom,
senza tralasciare molti altri riferimenti all’immaginario cinematografico
(basti pensare al personaggio di James Hurley, motociclista romantico e
irrequieto, citazione esplicita del
James Dean di Gioventù Bruciata
(Nicholas Ray,1955).
Il raggio d’azione di questa
intertestualità è, quindi, molto ampio: si va dall’omaggio alle più popolari saghe narrative della fiction
televisiva di fine anni ’70, come Dallas
e Dinasty, (i personaggi dei due
“cattivi” Catherine Martell e Benjamin Horne sono infatti mutuati da una
rivisitazione, in chiave umoristica, della perfida Alexis Carrington e del
leggendario J.R.), alla più stereotipata stucchevolezza di certe soap opera
(con i vari triangoli amorosi, i matrimoni infelici e i conflitti familiari,
con improvvise scoperte di paternità ); dai riferimenti al cinema “alto”
(Hitchcock e Bunuel) alla rivisitazione del cinema di genere, come il western
(si pensi al One Eyed Jacks, modellato sul genere bordello-saloon o alla saggia
figura del nativo americano Hawk), il melodramma e il noir, evocato soprattutto
da alcune conturbanti figure femminili, come Audrey Horne, la cui aria da femme fatale si rivelerà, però, soltanto
un bluff, e la ben più pericolosa Josie Packard, vera dark lady, abilmente
nascosta sotto un’apparenza fragile e innocente. A tutto questo si aggiunga una
spiccata vocazione della serie per l’umorismo nero e la comicità. Quest’amalgama
di elementi tanto eterogenei, questo continuo ricorso alla referenzialità, al
metalinguaggio, all’ironia, fanno di Twin
Peaks uno dei primi e più riusciti
esempi di postmodernismo televisivo, creando un universo nel quale lo
spettatore, di qualsiasi età, riconosce continuamente icone del proprio mondo e
della propria cultura, ma sarebbe sbagliato vedere in tutto questo un puro
gioco intellettuale.
Con Twin
Peaks Lynch e Frost mettono in atto un progetto ben preciso, quello di
svecchiare il mezzo televisivo e inaugurare un nuovo tipo di serial televisivo
che si autodenuncia, da subito, come perfetta finzione, metatesto, dialogo
aperto con lo spettatore. E’ infatti soprattutto in questo, nel rapporto con lo
spettatore, che Twin Peaks raggiunge
la sua più grande e rivoluzionaria conquista. Man mano che lo spettacolo
procede, lo spettatore si rende conto che risolvere il crimine è diventa
secondario: nel tessuto della storia, infatti, si intrecciano i fili più
disparati e lo spettatore è continuamente chiamato a dare un senso e a
collegare tutti quei materiali visivi e diegetici che appaiono incongrui e
privi di nessi logici. Già alla fine della prima stagione, lo spettatore si
accorge che non c’è una maniera univoca per spiegare l’intricata trama di Twin Peaks. Lynch, del resto, non è il
regista che ama fornire al suo pubblico una chiave di lettura per interpretare
le sue storie; lo spettatore è costretto a convivere con l’incertezza, a
procedere a tentoni in assenza di
rassicuranti delucidazioni. Se si fosse trattato di un prodotto
cinematografico, questa assenza non avrebbe stupito ma, in un prodotto
televisivo, essa è stata di sicuro un notevole passo avanti, che avrebbe finito
per influenzare in maniera radicale il futuro del variegato universo delle
serie televisive.
Questo saggio è una revisione di quello apparso in Cult Series Vol.1 (Dino Audino Editore, 2005) di Doriana Comandè.
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