A meno un giorno dal finale di una stagione apprezzata
e discussa, andiamo a ricapitolare e commentare quanto visto nel decimo
episodio, andato in onda la scorsa settimana.
Sono successe tante cose in Charles Manson in Charge, molte delle quali sono legate al nome
proprio incluso nel titolo dell’episodio. Come Kai tiene a specificare ai suoi
uomini durante l’ora delle (american horror) storie, Ryan Murphy e compagnia ci
hanno tenuto per ultima la vicenda più celebre e più cruente di tutte. Nel 1969
i membri più fedeli della Family di Manson, qui interpretati dai protagonisti
della serie (Billie Lourd, Sarah Paulson, Billy Eichner e Leslie Grossman) si
recarono nella villa di Sharon Tate, moglie del regista Polansky, e uccise
crudelmente lei, il bambino di cui era in attesa, e gli ospiti che
soggiornavano nell’abitazione. La particolarità di questa ricostruzione sta
nella già vista, ma qui a livelli estremi, soggettività con la quale Kai
racconta la sua interpretazione e la sua immedesimazione con l’accaduto. Allora
Sarah Paulson/Ally interpreta Sexy Sadie, eletta di Manson, così come Billie
Lourd/Winter veste i panni di colei che di fronte a un giudice tradirà il cult leader, decretandone
l’incarcerazione.
Non è un caso che Kai associ la traditrice della
Family con sua sorella. Solo poche scene prima abbiamo infatti assistito a un
tentativo da parte di Winter di far fuggire Beverly. Non fidandosi della
ragazza, Beverly non ha accettato. D’altronde come poteva fidarsi? Se Beverly
riversa nello stato mentale attuale e proprio grazie alla plateale pugnalata
alle spalle con la quale Winter è riuscita ad accusarla per l’omicidio di
Samuels, da lei stessa compiuto. Per la prima volta, invece, Winter era
intenzionata a far fuggire la compagna e poi fuggire lei stessa, dopo aver
chiesto il permesso al fratello.
In un intensa scena dove Kai, ormai totalmente
immedesimato nella “supremazia divina” di Manson, si fa rasare a zero dalla
sorella, Winter gli spiega le proprie intenzioni e lui alla fine sembra
accettare di lasciarla andare, per poi rivelare subito dopo di avere trovato il
biglietto con il quale, secondo la sua ormai inaffidabile ricostruzione dei
fatti, a causa della paranoia dovuta a sua volta dalle pillole che prende,
Winter avrebbe pensato di fuggire già da prima.
Facendo un salto indietro, assistiamo ad Ally
mentre asseconda le pazzie di Kai, prima trovando una cimice che noi spettatori
credevamo fosse solo frutto della fantasia del leader, poi salvandolo da Babe Babbit. Con uno dei flashback ai quali Cult ci ha abituati, scopriamo che è la donna ad avere dato inizio
a tutto, affidando a Kai il compito di fare insorgere con violenza le donne di
tutto il mondo, secondo il manifesto di Valerie Solanas. Com’era facile
immaginarsi, Kai è andato oltre e, complice il suo egocentrismo, la vittoria di
Trump e l’appoggio dei suoi seguaci, non è più interessato a mantenere la parola
data. Pronta a ucciderlo, Babe viene invece freddata da Ally.
Il piano del personaggio della protagonista
femminile, interpretata da una magistrale Sarah Paulson, raggiunge poi un nuovo
livello quando, alimentata per bene la pranoia di Kai, riesce a convincerlo del
tradimento della sorella e quindi della sua esecuzione. La fine di Winter, da
molti attesa, è stata volutamente tra le più lente e sofferte della stagione.
Non solo quello di Billie Lourd è stato un personaggio portante per i dieci
episodi dei quali ha fatto parte, bensì perché il suo sacrificio rappresenta l’ultima
trasformazione di Kai in leader
supremo, sulla scia del suo maestro immaginario Charles Manson, che con una
lama trafigge persino il fantasma del fratello Vincent.
In un’ultima scena, strabuzziamo gli occhi quando
scopriamo che le cimici non erano né frutto dell’immaginazione di Kai e nemmeno
messe apposta da Ally. La talpa esiste e porta il nome di Speedwagon, il più
fedele dei fedeli della setta.
Pronti per il finale? Noi di Lost in A Flashforward non lo siamo affatto!
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