C’è un
momento, nella quarta puntata di Twin
Peaks The Return, che molti spettatori stavano aspettando da parecchio: è
il momento in cui la storia a Twin Peaks sembra finalmente fare qualche passo e
ricongiungersi al passato.
Si, perché
finora abbiamo visto accadere diverse cose - anche se non moltissime, come
probabilmente speravamo – ma ancora nulla di significativo a Twin Peaks.
Anzi,
diciamo la verità: siamo rimasti anche un po’ delusi nello scoprire che il
grosso delle vicende narrate non si sarebbe neppure svolto a Twin Peaks.
Anche per
quanto riguarda il vecchio cast, Lynch ha voluto giocare con noi concedendoci
solo pochi incontri con i personaggi storici a cui eravamo così affezionati:
abbiamo rivisto il dottor Jacoby che,
in una scena mortalmente lunga, vernicia pale in mezzo ai boschi,
abbiamo visto per pochi minuti Benjamin Horne, il potente magnate di un tempo,
giustamente invecchiato, che dirige ancora il suo lussuoso hotel, abbiamo
visto James Hurley, l’ex dolce e tenebroso
motociclista mutuato dall’iconografia del James Dean di Gioventù bruciata, ma anche lui è stato poco più che una fugace
apparizione al Bang Bang Bar, come pure Shelley, che ventisei anni fa era una
splendida giovane cameriera che tradiva il violento marito Leo con il giovane e
strafottente Bobby Briggs, fidanzato ufficiale di Laura Palmer e che adesso è
ancora una splendida…chissà cosa, visto che tutto ciò che sappiamo di lei è che
ha una figlia e delle amiche con cui uscire la sera.
Abbiamo
anche rivisto Leland e Sarah Palmer, lui ormai relegato nella Loggia Nera, lei sola
a casa, con la stessa aria allucinata con la quale l’avevamo lasciata ventisei
anni fa.
Ma
soprattutto abbiamo rivisto Hawk, Lucy ed Andy, che un tempo costituivano praticamente
l’intero dispiegamento di forze della polizia di Twin Peaks: un taciturno nativo
americano, con la mistica saggezza del suo popolo nel sangue, una segretaria
tuttofare, svampita ai limiti del grottesco, un agente sensibilissimo che
piangeva di continuo e che era innamorato di Lucy.
A distanza
di venticinque anni, i tre non sembrano cambiati affatto e la stessa centrale
di polizia di Twin Peaks, immersa nel verde brillante della foresta
nordamericana, sembra conservata nel Tempo come una di quelle casette
di montagna dentro una palla di vetro che un turista comprerebbe se andasse in
vacanza in un posticino fuori dal mondo come Twin Peaks.
Lungi
dall’averci commossi, questo ritorno al passato non ha mai smesso di
disorientarci: in quattro puntate, Lynch e Frost, la diabolica coppia, ci
hanno restituito un Dale Cooper che non è più Dale Cooper in nessuna delle
versioni presentate e una Twin Peaks che, al contrario, è talmente identica a
se stessa da risultare stereotipata e persino meno credibile di demoni e
spiriti che vivono in un altrove più vicino di quanto vorremmo.
Poi
finalmente, dopo aver disseminato cadaveri truculenti a New York e in Sud
Dakota, dopo aver creato trambusto negli uffici dell’Agenzia Federale di
Investigazione – nome completo, come piace al supercapo Denise – con la notizia
della comparsa di un redivivo Dale Cooper e aver rispedito il vero Dale Cooper
(che però sembra affetto da un brutto trauma cerebrale) nel mondo reale, a Las
Vegas, ecco che ci siamo: qualcosa si muove anche a Twin Peaks.
Più che
muoversi, è come se il sipario sia stato finalmente levato e il Tempo, che
credevamo fermo, salti in scena, più beffardo che mai.
Il primo
motore dell’azione è lo sceriffo Truman che tanto aspettavamo: solo che non è
più il Truman che conoscevamo, Harry S. Truman. Questo è Frank Truman, fratello
dell’altro, che è ancora vivo, ma a casa, afflitto da una non ben precisata
malattia.
Interpretato da Robert Forster, volto che, insieme a quello di Patrick
Fischler (apparso nella prima puntata, in un glaciale ufficio di Las Vegas) e a quello della magnifica Naomi Watts, ci
riporta inevitabilmente al capolavoro di Lynch, Mulholland Drive, il
personaggio irrompe sulla scena portandovi dentro una potente ventata della ben
nota ironia lynchana: appena mette piede nella stazione di polizia, Lucy, che
era al telefono con lui, credendolo ancora a pesca in montagna, lo guarda
terrorizzata e sviene.
Sembra quasi la messa in scena di una parodia metacinematografica:
non stavamo forse noi tutti aspettando un’entrata in scena memorabile per uno
dei personaggi più importanti della vecchia serie? E non aspettavamo il suo
ritorno con una certa palpitazione?
Ma Lucy non sviene perché lo
sceriffo Truman è finalmente tornato nel cast, perché la faccia da sceriffo a
Robert Forster calza veramente a pennello e perché è da quattro puntate che lo
aspettavamo.
Lucy sviene perché – in linea perfetta con il suo personaggio – non si
è ancora abituata alle nuove tecnologie e non ha ancora compreso il
funzionamento di un telefono cellulare.
E del resto, non ci eravamo, forse, dimenticati pure noi dei telefoni
cellulari, visto che a Twin Peaks il Tempo ci aveva dato l’illusione di aver
tagliato la cittadina fuori dai venti del progresso?
Qualcuno – anzi molti – hanno definito questo momento l’operazione
nostalgia di David Lynch, come se Lynch fosse uno zuccheroso sentimentale che
rimpiange il passato e lo rinnega, come la povera Lucy Brennan.
È semmai l’operazione ironia
di David Lynch, in cui il regista se la ridacchia un po’ anche dei suoi
spettatori e ci mostra che no, il Tempo non può essere fermato in nessun posto,
neppure a Twin Peaks.
E quindi ecco che dietro il vetusto telefono con cui Lucy svolge
ancora il suo lavoro, dietro la paciosa lentezza di Andy, la riflessiva calma
di Hawk, si muove un nuovo staff poliziesco di agenti che operano con le più
moderne tecnologie e che costituiscono probabilmente il vero team operativo
dell’ufficio dello sceriffo Truman.
I “vecchi” insomma hanno davvero lasciato il posto ai “nuovi”, solo
che non lo sanno, perché lo sceriffo (chiara metafora del regista?) li lascia
bonariamente nell’illusione di essere ancora il perno centrale della stazione
di polizia.
E tra i nuovi agenti, la seconda, amichevole beffa di Lynch e Frost:
Bobby Briggs, l’ex bello e dannato del liceo di Twin Peaks, quello che
spacciava droga, rispondeva in modo strafottente agli adulti, se ne infischiava
delle forze dell’ordine (compreso il padre, il rispettabile Maggiore Briggs)
ed era fidanzato con Laura Palmer, anche se nessuno sospettava che la coppietta
più invidiata del liceo fosse abituale consumatrice di cocaina, è diventato uno
sbirro, che si occupa soprattutto di indagare sui giri dello spaccio locale e
sull’avvento delle nuove droghe tra i giovani di Twin Peaks.
Con l’ingresso di Bobby, l’anima ironicamente nostalgica della
puntata raggiunge il suo apice: quando Bobby entra nella sala, dove
venticinque anni fa Cooper e Truman lo interrogarono circa l’omicidio della
fidanzata e dove adesso Hawk ha riaperto le scatole del vecchio caso per
portare alla luce qualche nuovo indizio sulla scomparsa, ancora irrisolta, dell’agente Cooper, in primo piano sul tavolo
appare la foto di Laura Palmer: quella stessa famosissima foto di lei,
bellissima ed enigmatica, che sorrideva nella vetrina dei trofei scolastici.
La serie che conosciamo balza di colpo dal passato al presente ed è
tutta qua: basta un’unica foto, il motivetto musicale struggente che associamo
ancora oggi alla foto da reginetta di Laura, al suo sorriso da Gioconda che non
lascia trapelare nulla eppure racconta già tutto, l’ambiguità, la doppiezza, il
mistero indecifrabile di ogni vita.
Ed è un momento di sincera emozione, non per Laura, che in realtà non
ci venne mai propriamente mostrata in una luce commovente – se non forse nel Diario segreto di Laura Palmer, scritto
poco dopo la serie dalla stessa figlia del regista, Jennifer Lynch - ma per il Twin Peaks che conoscevamo e che è
tanto diverso da quello di adesso, diverso proprio come Bobby Briggs, che, alla
vista di Laura, viene sopraffatto da un’ondata di commozione talmente credibile
che, per qualche momento, noi tutti dimentichiamo il passato: ecco la beffa.
A distanza di ventisei anni, aspettavamo talmente qualcosa che ci
riportasse alla Twin Peaks del passato da esserci fatti ingannare persino da
Bobby, uno dei personaggio un tempo meno affidabili di tutta la serie.
Non che le lacrime del nuovo Bobby, il Bobby-poliziotto, maturo e
affidabile, non siano sincere, ma per un momento queste lacrime ci hanno fatto
dimenticare che ventisei anni fa Bobby non ci parve mai troppo affranto per la
morte di Laura, tanto che il nostro adorabile Cooper – non il Cooper
robotizzato di adesso – dopo averlo interrogato, sentenziò con tranquilla
sicurezza: “E comunque tu non l’amavi”, un’affermazione che inferocì Bobby, ma
che colpì nel segno.
Ventisei anni fa Bobby non pianse per la morte di Laura, non ne era
innamorato, né provò mai a proteggerla, come invece tentava di fare il tenero
James Hurley, che, pur non presente nella puntata, viene in un certo senso
evocato da un altro personaggio strepitoso, Wally, il figlio di Lucy ed Andy,
motociclista anche lui, anche lui mutuato da un altro grande personaggio del
cinema, il giovane Marlon Brando de Il
Selvaggio.
Forse destinato a restare un cameo, il personaggio di Wally,
interpretato da Michael Cera, ci riporta al passato e al tempo stesso lo nega,
perché Wally non è James, come il nuovo Bobby non è più Bobby, come il nuovo
Truman non è più Truman…e come i nuovi Cooper non sono più il Cooper che
ricordiamo, il Cooper che vogliamo.
E forse siamo noi che abbiamo un po’ le lacrime agli occhi perché
questo ritorno ci ha spiazzato e continua a spiazzarci e soprattutto perché, se
un tempo ci chiedevamo “Chi ha ucciso Laura Palmer?” ed eravamo abbastanza
sicuri di ottenere una risposta, oggi ci chiediamo: “Tornerà alla fine
l’agente Cooper, il nostro agente
Cooper?”
E no, dopo ventisei anni, non siamo poi così sicuri che il vecchio
Lynch darà a questa domanda la risposta che noi tutti vorremmo ascoltare.
Come sempre, un saluto alle nostre affiliate:
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