Dopo tre anni di attesa e indiscrezioni ha finalmente fatto ritorno su piccolo schermo l'anthology drama creato da Nic Pizzolatto e targato HBO. In seguito a una discussa seconda stagione, che a differenza di molti io ho comunque amato, il nuovo arco narrativo di True Detective sembra celare nemmeno troppo in profondità un'operazione filologica alla riscoperta dello show e del successo che rappresentò al suo debutto.
Dietro la terza stagione di True Detective, in onda negli Stati Uniti dal 14 gennaio e in Italia da lunedì scorso, si annidano infatti le preoccupazioni degli autori di far tornare la serie alla sua antica gloria. Quando uscì nel 2014, infatti, True Detective portò aria fresca in una realtà storica come quella di HBO che della serialità televisiva ha attraversato le epoche e gettato importanti basi, ma che allo stesso tempo si trovava sormontata improvvisamente da un inedito panorama audiovisivo. Siamo a un anno dal debutto di Netflix con House of Cards, e da poco HBO ha terminato un prodotto drammaturgicamente perfetto come Boardwalk Empire, di cui -inspiegabilmente- il pubblico italiano parla assai poco. Mentre HBO intrattiene con la sua spettacolarità, True Detective punta a soddisfare la sete di plot intelligente e prodotto accuratamente confezionato che solo format come quello antologico o miniseriale possono garantire.
Sulla falsa riga dell'ottimo risultato ottenuto con Buscemi, vengono scelti altri due volti noti al grande schermo per intraprendere questa nuova esperienza. Conosciamo così l'esistenzialista Rust Cohle (Matthew McConaughey) e il partner Marty Hart (Woody Harrelson) al cui fianco troviamo il coraggio e l'ingenuità richieste per toccare a mano nuda l'oscurità e lasciarci toccare da essa (cit.).
Dalla sigla di apertura ai titoli di coda dell'episodio finale, guardando la prima stagione di True Detective abbiamo assistito alla stesura di una nuova pagina di storia della serialità televisiva, per quanto concerne perlomeno l'antologia contemporanea.
Per questi e mille altri motivi, dalla seconda stagione ci si aspettava molto di più, o semplicemente non si era pronti a qualcosa di totalmente diverso. Agli occhi di molti l'unico collante tra la seconda stagione e quella precedente erano i baffi posticci di Colin Farell. Personalmente, credo che la stagione abbia preso il volo e sia entrata nel vivo del racconto proprio nel momento in cui anche questo legame, per quanto didascalico, è stato lasciato alle spalle (in altre parole, Velcoro si è sbarbato).
LEGGI LA RECENSIONE DELLA SECONDA STAGIONE DI TRUE DETECTIVE
La seconda stagione di True Detective fu diversa dalla prima, un universo narrativo molto più ampio, ben quattro protagonisti (sempre di origini cinematografiche, come Vince Vaughn e Rachel McAdams) e, come esito finale, non fu promossa dall'opinione pubblica. Ne conseguì il rischio della cancellazione della serie e un esame di coscienza da parte della produzione, che a detta dello stesso Pizzolatto con la terza stagione avrebbe compreso e rimediato agli errori commessi con la precedente.
Quanto si può parlare di errori di un autore, se allo spettatore la tua serie non è piaciuta? Un tema che viene inesorabilmente incluso in quello che è il macrocosmo del fandom e del potere del fandom sulle opere transmediali odierne.
NIC PIZZOLATTO E IL RITORNO ALLE ORIGINI DELLA SERIE
Certo è che con Mahershala Ali come protagonista la nuova stagione non poteva partire meglio. Per attuare l'operazione di riscatto o addirittura di ripristino dello show, gli autori non potevano non riproporre alcune costanti della prima stagione: abbiamo gli scenari paludosi, i boschi sterminati, una coppia di Detective (e non più un trio come nella stagione precedente) alle prese con un caso di persone scomparse. Si ritorna, soprattutto, allo split del racconto in più linee temporali. Laddove le le indagini di Cohle e Marty seguivano passato e presente dei protagonisti e del loro caso, assistiamo ora a ben tre linee temporali diverse.
All'alba degli eighties, Wayne "Purple" Hays (Ali) viene introdotto assieme al partner Roland West (Stephen Dorff) al caso dei fratelli Purcell; In una linea intermedia, collocata nel 1990, il caso si riapre e un Wayne invecchiato di dieci anni si rimette sulle tracce di una nuova, inaspettata pista; La vera novità, infine, è la linea temporale situata in un futuro per noi ormai in odor di passato, il 2015, dove un ormai anziano detective Hays ricostruisce pezzi della sua vita familiare e professionale.
A differenza di un American Horror Story: Apocalypse, guardando la nuova stagione di True Detective è evidente come il rispetto e la fedeltà alle aspettative del proprio pubblico non significhi una necessaria operazione nostalgica destinata a scadere nel mero fan service (nonostante il legittimo sfruttamento di un'epoca, quella degli anni Ottanta, tanto di moda oggi, grazie anche a serie rivali come Stranger Things). Il ritorno al passato della serie qui va più inteso come la volontà degli autori di scegliere tra due profili di una stessa serie (prima se seconda stagione) quello che più si addice al tono e al carattere pensato in origine per lo show.
A tre episodi dal suo debutto, True Detective 3 è una serie che promette bene, che rievoca suggestioni del passato della serie ma sembra avere ancora tanto da dire. I rapporti tra personaggi, i segreti dei protagonisti, lo stesso caso Purcell, di una banalità disarmante eppure così misterioso, sono tutti tasselli di un puzzle ai nostri occhi del tutto nuovi, un mondo da scoprire settimana per settimana e che, come ben poche delle moltissime serie odierne sono in grado di fare, alla fine di ciascun episodio ti fa desiderare di saperne di più, di potersi permettere d'essere ancora toccati da un po' di oscurità senza lasciarsi cambiare, se non in meglio.
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