DEATH NOTE firmato Netflix, Recensione - Il successo nipponico è un flop americano

L'immagine sopra selezionata non è stata scelta a caso: quelli sono stati il mio sguardo, la mia espressione, la mia intera faccia, per tutti i cento minuti che la visione di questo film mi ha tenuta impegnata. 

Ma partiamo per gradi: nel Marzo del corrente anno, Netflix annuncia la produzione di un film basato sulla trama dell'amato manga "Death Note". Ed io, insieme a diversi milioni di fan sfegatati di questo grande successo nipponico, siamo insieme elettrizzati e terrorizzati. Del resto è sempre così, quando tocchi qualcosa di così caro, di così prezioso, di così tradizionale: si corre il rischio di rovinarlo. E Netflix ci è riuscito alla grande. 


Il progetto proponeva una trasposizione dei fatti descritti nel manga (che ha avuto origine nel 2003), ma riadattati all'ambiente americano. Difatti il tutto avviene a Seattle, città dove vive il protagonista Light. Parliamone:


questo è Light. Quello con il cilindro e la faccia da scemo è Light (Yagami,Turner per la versione americana di Netflix). Il temibile Kira. Con il cilindro. 
La prima cosa che mi ha fatto impallidire è proprio l'immagine che hanno voluto dare (o meglio dire, modificare) di questo protagonista. Il Light del manga/ anime è il ragazzo più affascinante della scuola: tutte le ragazze sognano uno come lui, e tutti i ragazzi sognano di essere come lui, o di essere suoi amici (un Troy Bolton giapponese insomma); genio indiscusso della scuola, si classifica primo nei test nazionali, è campione di tennis ed ogni cosa che fa sembra riuscirgli bene al punto da chiedersi se non sia capace di trasformare in oro tutto ciò che tocca. 
Light versione Netflix è leggermente diverso: perché diversificarlo da ogni singolo protagonista adolescente americano da film? Lo sfigato emarginato, sfruttato dai compagni, malmenato dai bulli, colui che insomma passa inosservato.
Perché?! Ma posso capire il desiderio di renderlo il più vicino possibile ad un protagonista medio. Lo tollero. 
Poi c'è la scelta dell'attore: sin da quando trapelò la notizia della scelta di Natt Wolff come protagonista del film inspirato a Death Note, sono subito diventata dubbiosa: Natt si è fatto strada nel mondo del cinema grazie soprattutto a due film basati sui libri di John Green: prima come Isaac in Colpa delle stelle, e poi come protagonista in Città di carta. Nel primo, serviva come personaggio secondario, ad alleggerire in parte la tensione del tema affrontato per tutta la pellicola; nel secondo, invece, il suo è un ruolo che tende al drammatico. Ma di drammatico in lui non c'è nulla, tanto meno viene fuori nel lungometraggio di Netflix: l'espressività dell'attore continua a lasciar desiderare, soprattutto nelle scene in cui il pathos è fondamentale.


In questa foto vediamo Light " terrorizzato" dal primo incontro con Ryuk. A me ha fatto semplicemente ridere, tanto. 

Quindi non solo la natura del personaggio cambia, non solo vengono modificate le sue origini e la storia di famiglia (la madre, morta quando lui era piccolo, il padre, poliziotto poco considerato dai suoi colleghi, e la sorella inesistente), ma viene anche meno l'espressività regale, quel freddo terrore contenuto, quell'oggettività glaciale, che contraddistingue il Kira dell'anime.
Quello stesso Kira, nella storia originale, è spronato dalla sua visione della giustizia, ma anche dalla battaglia mentale con L, l'investigatore privato che sta sulle sue tracce, suo acerrimo nemico. 
Anche questa lotta viene praticamente eliminata. Light è totalmente sottomesso alla sua ragazza, Mia (in origine, Misa), che non si capisce ne' come ne' quando, si innamora perdutamente del protagonista e comincia a scegliere con lui chi dovrebbe vivere e chi dovrebbe morire. Personaggio questo totalmente senza spessore a mio avviso, che sarebbe passato inosservato senza la bellezza dell'attrice (Margaret Qualley).
Ma passiamo proprio a ciò che più di tutto amavo di Death Note, il personaggio per eccellenza, il simbolo dell'anime, Ryuk.


Di nuovo ci si chiede perché. A prestare la voce al personaggio nella lingua originale, è l'attore Willem Dafoe, e se avesse prestato anche la faccia, Ryuk sarebbe risultato ben più spaventoso (per me quell'attore è il viso della malvagità, recitare il cattivo gli riesce troppo bene).
Però Netflix decide di ricreare il personaggio al computer: ci si aspetta quindi che sia il più realistico e fedele possibile. Aspettative terribilmente deluse. Il disegno nell'anime faceva cento volte più paura, anche dopo la millesima apparizione. 


Nel film giapponese del 2006, Ryuk faceva la sua bella - e giustamente terrorizzante-  figura così. I produttori di Netflix hanno però voluto riadattarlo. Di nuovo, per me, tentativo fallito. 

Per ultimo ma non per importanza, L (Elle):
questo personaggio è per me - vi sembrerà strano, viste le lamentele qui sopra riportate - quello che più ha perso senso. 
Da che fu rilasciato il nome dell'attore che avrebbe interpretato questo iconico - e PALLIDO - soggetto, son partiti anche gli insulti. Non perché Lakeith Stanfiel non sia un bravo attore, e sicuramente non per via del fatto che sia di colore, no di certo. Tutto ciò non è minimamente passato nella mente dei fan; quello che ci aspettavamo era un casting il più possibile fedele al progetto originale. 
Ma nonostante ciò gli è stata concessa una possibilità: quello che si vede passeggiare (nella prima scena, addirittura con le scarpe!) nei panni di Elle, sembra solo un brutto tentativo di ricordarcelo: la posizione sulle sedie, le caramelle costantemente sgranocchiate, sono gli unici aspetti che ci suggeriscono effettivamente che quello sia il famoso investigatore. Per il resto del tempo L è controllato dalla propria emotività, fino al punto di impossessarsi di un'auto della polizia! La famosa guerra mentale non esiste in un solo minuto dei cento. 
Finisco qui di lamentarmi - credo, tecnicamente - dicendo che persino la colonna sonora lascia a desiderare. Persino quella. 
Mi rincuora non essere stata l'unica a soffrire durante la visione, ma, anzi, su diverse recensioni si leggono addirittura frasi come quella di Alessandro Massone per "The Submarine": "La mancanza di comprensione dell'opera originale è così drastica che più volte nel film viene spontaneo chiedersi se gli autori dell'adattamento e il regista abbiano letto il manga." Non credo possano esistere parole più dure di queste; la lotta tra ciò che è giusto e ciò che crediamo sia giusto, la sottile linea tra il voler aiutare la terra e il volersi sentire come Dio: non c'è nulla di tutto ciò nella proposta di Netflix, che si riduce ad una tragica storia d'amore tra due adolescenti, che si credevano in grado di cambiare il mondo. 
Il tutto enormemente un flop. 

Da parte di Cass è tutto, spero la prossima volta di recensire un successo! 
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Articolo di Unknown

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